Quello dell’istituto dei senatori a vita può essere considerata una sorta di “dependance” del Capo dello Stato dal momento che egli, autonomamente, può nominare fino a cinque senatori durante il proprio mandato.
E questo secondo il parere "pro veritate" espresso dalla Giunta per il regolamento del Senato che, durante la presidenza Pertini, sconfessò coloro che ritenevano, invece, che potevano sedere nel Senato fino a cinque senatori a vita, tra quelli di diritto e quelli nominati, appunto, con tale prassi.
Nessuno, tranne il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, si è sottratto a questa “regale prerogativa”, dal momento che, appare evidente, la sua discendenza dallo Statuto Albertino. E alcuno, pare, abbia fatto propria la diffidenza che Umberto Pieraccini aveva prospettato fin dall’inizio sia perché, i senatori a vita, tracimando da una Legislatura all’altra impedivano di fatto il rinnovo dell’assemblea sia perché, comunque, introducevano un elemento “politico” nell’assemblea stessa che non discendeva, e non discende, dalla volontà elettorale espressa dal voto.
Si discute molto di mettere mano ad un “restyling” della carta costituzionale ma non viene citato l’ “Art. 59 È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”.
Pur volendo mantenere l’istituto, ancorché di monarchica memoria, il Legislatore potrebbe e dovrebbe limitare l’esercizio del ruolo e delle prerogative.
I prescelti sentono certamente l’onore della designazione.
Il ruolo onorifico dovrebbe così essere esercitato nel partecipare alla discussione ma senza diritto di voto e lo stesso ruolo onorifico, anche in considerazione del già alto prestigio raggiunto, dovrebbe essere esercitato, appunto, onorificamente cioè senza aggravi economici per la comunità cioè senza aggiungersi al debito pubblico.