Lucio Palombini.....Blog

Marcello FiloticoMarcello Filotico (1928) da Manduria (Lecce), è un Anatomo Patologo formatosi alla Scuola barese diventato, poi,  Primario (oggi si dice dirigente di II Livello) del Servizio di Anatomia Patologica dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce.

Fu “cooptato” alla disciplina, a Bari, da Luciano Fiore Donati, recentemente scomparso. Marcello Filotico era amico del mio maestro Antonio Calì. Si conobbero e frequentarono a New York dove erano arrivati seguendo strade diverse. Il Professore mi raccontava che Marcello Filotico conosceva un posto dove acquistare mozzarelle buonissime.

Filotico ha, negli anni, affinato sempre la sua cultura diagnostica con letture, frequentazioni a Congressi e, soprattutto, alla scuola di Raffaele Lattes di cui divenne, poi, amico e. come lui, esperto di capitolo tanto raro quanto difficile della istopatologia diagnostica come i tessuti molli (soft tissues).

Mi sono imbattuto in una sua bella, profonda conferenza a “tutto tondo” pubblicata su SALENTO MEDICO, Anno XXXV n.1 Gennaio-Febbraio 2012 e, ricevuto il suo permesso, la riporto e la diffondo volentieri.

 

La diagnosi istopatologica, questa mal conosciuta 

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA BASE DI 50 ANNI DI ESPERIENZA SUL CAMPO

Al termine del mio precedente articolo su questo Bollettino (SM maggio-giugno 2009) annunciavo un successivo intervento su di un argomento, il cui significato e limiti sono sconosciuti o meglio (o peggio) mal conosciuti, da coloro che ne sono i naturali destinatari: la refertazione istopatologica. Nella stesura della presente nota, a differenza dalla precedente, farò ricorso solo alla mia personale esperienza e ai miei personali convincimenti (concedendomi qualche divagazione autobiografica), astenendomi, per quanto possibile, da citazioni di letteratura recente o passata.

La morfologia patologica nell’ultimo sessantennio del secolo scorso (più precisamente dopo la fine del II conflitto mondiale) ha subìto, concettualmente, una profonda modificazione. Le leggi razziali che investirono l’Europa negli anni ‘40 portarono alla migrazione, verso il mondo anglosassone (Usa in particolare) dei migliori cervelli della scienza, compresi alcuni grandi patologi mitteleuropei (Klemperer. Hans Popper, O.Saphir e tanti altri). Vi fu un assai proficuo incontro e successivo mixing tra il pragmatismo anglosassone e l’attitudine teoretica della cultura mitteleuropea.

Stranamente, il primo movimento verso una radicale modifica del ruolo dell’anatomopatologo, nel contesto dell’attività medica, non si verificò tra i patologi, bensì tra i clinici i quali sentirono la necessità di valutare, sul campo, le capacità dell’indagine morfologica a fornire elementi utili al trattamento e alla prognosi dei processi morbosi. Si trattava, in ultima analisi (abbandonando Virchow per Morgagni), di guardare i processi morbosi, pur con gli stessi mezzi della morfologia tradizionale, da un angolo visuale differente, corroborato dal rigore scientifico che la cultura mitteleuropea aveva apportato.

Columbia UniversityFurono alcuni chirurghi del College of Physicians & Surgeons (P&S) al Presbyterian Medical Center della Columbia University di New York, (fig.1), che per primi lasciarono il bisturi per il microscopio, a dar vita a questa “nuova disciplina” definita non più Anatomia patologica bensì “Surgical Pathology”, termine di assai difficile traduzione nella nostra lingua, che potrebbe definirsi come “Morfologia patologica diagnostica”.

 Uno dei fondatori di questo movimento, che tra gli anni ‘40 e ‘60 produsse contributi fondamentali nella comprensione della storia naturale di molte forme morbose, particolarmente neoplastiche, fu il dott. (*) Arthur Purdy Stout che ebbe come allievo prediletto e poi come successore un nostro connazionale Raffaele (Rafe per gli americani) Lattes (To 1910-To 2003): torinese purosangue, della generazione di Levi Montalcini, Dulbecco, Amprino, tutti della covata del grande Giuseppe Levi. Emigrato negli Usa a seguito delle leggi razziali. Anche lui chirurgo convertito. Dall’altra parte dell’Atlantico, dopo la fine della guerra, sino alla soglia degli anni ‘60 di queste cose si aveva solo un assai vago sentore, anzi si continuava a perseguire (almeno da noi) una rigorosa, talvolta ringhiosa, dicotomia tra le discipline morfologiche (ancora di stampo nettamente Virchowiano) e quelle cliniche. Di queste “novità americane” se ne parlò più diffusamente, nell’Istituto di Anatomia Patologica di Bari, quando il nostro Direttore dell’epoca, Prof. Italo Rizzi, reduce da un lungo soggiorno in Usa ci illustrò le meraviglie della Surgical Pathology e delle Cpc (Clinical Pathologic Conferences). A seguito di ciò si instaurò una continua collaborazione con il dott. Lattes al quale venivano inviati, per seconda opinione, i casi più spinosi e controversi. In me, che, prima di dedicarmi totalmente alla morfologia, avevo vissuto una intensa ed annosa esperienza di medicina clinica internistica, il discorso destò particolare interesse, tanto che una volta venuto al V. Fazzi, ottenni, nel 1963, dall’Amministrazione dell’epoca, un congedo di due mesi (che poi divennero tre) ed un contributo economico per recarmi presso il Servizio di Surgical Pathology della Columbia University di N.Y.

L’esperienza per me fu fondamentale sia dal punto di vista professionale che umano: scoprii un fervore operativo e un’integrazione interdisciplinare del tutto sconosciuti per noi, chiusi nelle logiche degli “orticelli” (ancora vigenti), da cui potevano ottenersi risultati operativi e scientifici di enorme valore. Il dr. Stout, benché settantottenne e ufficialmente ritirato, continuava ad avere un suo studio da dove distribuiva a giovani e meno giovani i frutti della sua grande esperienza e dottrina, cosa che, giunto il suo tempo, fece anche il dr. Lattes. Nel mondo anglosassone il culto dei grandi vecchi è sentitissimo in quanto viene considerata delittuosa la dispersione di esperienze irrepetibili (L. Ackerman, R. Willis, R. Scully, H. Rappaport, F. Enzinger, R. Dhalin e tanti altri). Da noi, purtroppo le cose vanno diversamente. Il giorno fatidico ti buttano fuori, magari con un’ipocrita cerimonia di addio, avendo, però, cura che di te non rimangano tracce (burnt out).

Figura 2Sin dall’inizio il mio rapporto si svolse con il dott. Lattes (fig.2) che da quel momento, e per circa 40 anni è stato il mio mentore, amico e consigliere. Un elemento fondamentale della mia  evoluzione professionale ed umana. In questi anni, partecipe e non solo spettatore di questa grande rivoluzione, tanto che nel 1970, in occasione del Congresso della Società Italiana di Cancerologia a Torino, mi venne affidata,in associazione con il dott. Lattes (uno dei maggiori esperti mondiali sull’argomento), una relazione sulla Surgical Pathology dei Tumori dei Tessuti Molli (argomento al quale ho dedicato nel corso degli anni la maggior parte dei miei contributi). Successivamente (1986) su segnalazione dello stesso Lattes, ho ricevuto il grande onore di essere accolto come membro della A. P. Stout Society of Surgical Pathology di N.Y., la più prestigiosa associazione mondiale di questa disciplina.

Ho varcato l’oceano almeno trenta volte, per passare due settimane con il mio mentore, sino al 1998, anno in cui, dopo la perdita dell’adorata consorte, decise di ritornare nella sua Torino, in prossimità delle sue adorate montagne, dove alla veneranda età di 93 anni nel 2003 ha concluso serenamente la sua vicenda terrena (è andato in “apoptosi” come scherzosamente soleva ripetere), accompagnato all’ultima dimora dal nostro affetto (eravamo in tanti) e dalle note della “Montanara”.

Una pratica, ormai desueta nell’era del digitale, che ha contribuito non poco allo sviluppo della disciplina, è quella degli Slide Seminars: scambio di preparati di dubbia o difficile interpretazione tra patologi che successivamente si incontrano per discuterne collegialmente sotto la conduzione di qualche big.

Figura 3Il prof. J. Rosai (altro grande della Patologia mondiale dell’ultimo scorcio del XX secolo, autore, tra l’altro, del più rinomato trattato di Surgical Pathology, giunto ormai alla X° edizione e tradotto in moltissime lingue) con il quale da anni condivido una calorosa amicizia ed una attiva collaborazione scientifica, continua questa tradizione riunendo settimanalmente nel suo Dipartimento di Istopatologia Diagnostica Oncologica presso il Centro Diagnostico Italiano di Milano, i patologi dell’area lombarda cui si associano alcuni outsiders (tra cui il sottoscritto).

La storia della Surgical Pathology negli USA è narrata in una bellissima monografia: “Guiding the Surgeon’s Hand” (fig.3) edita da Armed Forces Institute of Pathology nel 1997: collettanea di contributi dei più grandi patologi nord-americani del secolo XX, coordinati editorialmente da J. Rosai. 

In quegli anni, forse anche inconsciamente, sono stato veicolo nella nostra terra di queste “novità” (con contributi scritti e relazioni congressuali) tanto che nel dedicarmi una copia del volume “Guiding” J. Rosai così scriveva: “Al caro amico M. F. che ha fatto il suo (la sua parte ndr.) dall’altro lato dell’oceano” – marzo 1998.

Prima di addentrarci nella disamina specifica dell’argomento, è opportuna una premessa: la diagnosi istopatologica è un atto medico o no? Per rispondere a tale quesito è necessario definire cos’è un atto medico. Infatti non tutte le prestazioni sanitarie sono “atti medici”. A mio personale avviso è da considerarsi atto medico quella prestazione sanitaria che produce:

a) effetti diretti sullo stato del paziente

b) comporta una o più scelte da parte dell’operatore (che se ne assume la piena responsabilità) di fronte a varie opzioni, sia nella fase diagnostica, che nelle applicazioni terapeutiche.

Su queste basi la diagnosi istopatologica è da considerarsi un atto medico a tutti gli effetti in quanto produce effetti diretti sullo status di un paziente sia per quanto attiene la prognosi che i provvedimenti terapeutici da adottare, ma è anche il prodotto di una scelta tra varie opzioni, per fortuna, di solito abbastanza agevole, ma in una percentuale non trascurabile di casi assai ardua, talvolta impossibile. Natura non facit saltus; nel nostro caso potremmo dire Pathologia non facit saltus. In molte lesioni è ben evidente un continuum tra condizioni di gravità diversa e con prognosi differente. Non sempre è agevole distinguere un adenoma, mettiamo intestinale, con atipia grave, ma pur sempre privo di capacità metastatizzante, da un adenocarcinoma nettamente maligno, un nevo atipico da un incipiente melanoma (la variabilità morfologica delle lesioni pigmentate è veramente impressionante). Su questi territori di confine da sempre, e non sempre vittoriosamente, si cimenta la diagnostica istopatologica.

La istopatologia è un’arte antica, nata e fiorita nei secoli XVIII e XIX, le cui dotazioni tecnologiche sono rimaste sostanzialmente immodificate nei principi operativi, subendo esclusivamente operazioni di restyling tese a migliorare le prestazioni degli operatori e i tempi di allestimento dei preparati. I meccanismi logici che debbono guidare alle scelte diagnostiche sono, pur sempre, di esclusiva pertinenza del patologo.

Il preparato istologico si presenta all’osservatore come un messaggio cifrato che quest’ultimo deve decrittare compiendo una operazione che in logica viene definita inferenza (l’inferenza è il processo con il quale da una proposizione accolta come vera, si passa a una proposizione la cui verità è considerata contenuta nella prima - Wikipedia). In altre parole dalla osservazione di quadri morfologici (statici) si passa a formulare valutazioni di carattere dinamico (comportamenti predittivi, prognosi, etc). Esempio diagnosi: Carcinoma duttale infiltrante della mammella: sono dati morfologici, statici, indicanti una lesione la cui dinamica evolutiva, si prevede, sarà di un certo tipo.

Ma le cose non sono così semplici, sia perché una determinata lesione può presentare una o più varianti morfologiche che possono conferirle comportamenti clinici differenti, sia perché può condividere aspetti morfologici con lesioni a differente significato biologico.

Un tempo bastava reperire in un linfonodo un particolare tipo cellulare, definito “cellula di Sternberg” per porre la diagnosi di M. di Hodgkin. Oggi questa condizione morbosa è scomposta in diverse varianti morfologiche ognuna delle quali con una sua specifica prognosi e una differente sensibilità ai trattamenti terapeutici. A ciò vanno aggiunte condizioni linfoproliferative, di cui alcune non neoplastiche (mononucleosi) o para-pseudo-neoplastiche (papulosi linfomatoide) in cui compaiono cellule “tipo” Sternberg che con la malattia di Hodgkin non hanno nulla da spartire.

Un messaggio da decrittare ancora più complesso è quello dei linfomi cosiddetti “non Hodgkin”, in cui, con morfologie, spesso assai simili, sono presenti istotipi i cui comportamenti sono tra loro assai differenti. Non sempre ad indicatori morfologici di malignità (atipia, anaplasia cellulare, alto indice mitotico) corrisponde un comportamento maligno. Ad es. fibroxantoma atipico della cute, tessuti reattivi atipici (pseudosarcomi), fascite nodulare etc: tutte lesioni a comportamento non maligno. Viceversa lesioni di aspetto blando (es.carcinoma papillare o follicolare della tiroide) sono portatrici di capacità diffusive e metastatizzanti o tendono alla recidiva locale come le fibromatosi di vario tipo e i tumori fibroistiocitari.

Per fortuna (ma non troppa) con le attuali metodiche di immunoistochimica e di biologia molecolare alcune chiarificazioni si vanno individuando, specialmente per quanto riguarda la patologia linfoproliferativa. Tali pratiche vanno però adoperate cum grano salis senza attribuire ad esse poteri taumaturgici, consci della estrema delicatezza di tali procedure esposte a numerosi trabocchetti (pittfalls), legati ad una serie di fattori tecnici ed interpretativi (per chi voglia saperne di più consiglio il bel lavoro dei nostri G. Bussolati e E. Leonardo su J.Clin.Path. 2008, 61: 1184-1192).

In questo ultimo quarto di secolo i vari istotitipi, particolarmente neoplastici, sono stati rivalutati e ridefiniti in base al loro profilo immunoistochimico, costituito dalla espressione di pannelli in cui gli anticorpi sono tra loro variamente combinati. La non eccezionale mancata convergenza tra morfologia e immunoistochimica, prevista per una determinata lesione, apre una ulteriore problematica che secondo la mia opinione, non può sic et simpliciter esser risolta a favore del dato immunoistochimico (come non pochi, semplicisticamente, e con una punta di pigrizia mentale, tendono a fare), ma criticamente valutata anche sulla base di parametri clinici, biologici e strumentali che possono supportare un orientamento piuttosto che un altro. In questi ultimi anni con la individuazione di varianti, dotate di autonomia comportamentale nei confronti della lesione classica e la individuazione di lesioni, cosiddette borderline (più modernamente definite a LMP: Low Malignant Potential ovvero a Potenziale Maligno incerto) il lavoro diagnostico è divenuto un’impresa assai ardua nella quale, oltre alla propria esperienza di morfologo, il patologo deve far ricorso alla perfetta conoscenza della patologia in esame, anche nei suoi risvolti clinici più delicati: necessita, cioè, di disporre di anamnesi ed esami obbiettivi precisi ed accurati, di dati operatori esaustivi circa la localizzazione topografica delle lesioni.

Poiché tutti questi dati il patologo, di solito, non può acquisirli irettamente, è necessario che chi vi è preposto esegua queste operazioni con la massima diligenza e accuratezza -cosa che di solito non avviene - rendendosi conto che la buona riuscita di una indagine istopatologica, in certe circostanze, può dipendere più dalla sua accuratezza che dalle bravura del patologo - Un esempio personale, dei tanti che potrei citare: Lesione cutanea pigmentata in un soggetto la cui data di nascita nel foglio di richiesta, vergato con grafia quasi inintelligibile, viene interpretata come 1952 (eravamo nel 2002), quindi anni 50. Diagnosi: melanoma. In effetti si trattava di un bambino di dieci anni, nato nel 1992, per cui la lesione andava interpretata, sulla base del dato anagrafico, come nevo di Spitz, del tutto benigna, ancorché fortemente atipica. La stessa lesione in un soggetto di età avanzata va classificata come melanoma. La diagnosi proviene da una scelta tra varie opzioni; è quindi, frutto di un processo mentale selettivo, di tipo logico che non può essere sostituito da alcun apporto tecnologico. Talvolta questa scelta è facile,quasi intuitiva, talaltra, e non di rado, assai ardua e difficile e necessita di conoscenze collaterali, spesso non di indole istomorfologica in senso stretto. La diagnosi differenziale, come nella clinica, anche in istopatologia rappresenta il clou dell’atto medico in cui vanno a confrontarsi le varie ipotesi tra cui scegliere quella che appare la più aderente alla realtà obbiettiva. Ed è proprio nella valutazione di questa realtà che entrano in gioco fattori  personali legati in primo luogo al patrimonio culturale dell’operatore, alla sua esperienza e sensibilità e, non ultimo, trattandosi di una attività umana, al suo stato d’animo.

Da ciò si deduce quanto sia erroneo il diffuso convincimento che il responso istopatologico sia qualcosa di tranchant, il top della diagnostica, l’ultima parola, la sentenza senza appello, il verdetto senza se e senza ma, per cui se viene esternato qualche dubbio, o peggio, se viene smentito dai fatti, ciò è conseguenza dell’insufficienza dell’operatore.

A questo punto è opportuno parlare della seconda opinione (second opinion).

La seconda opinione, ossia, la rivalutazione diagnostica istologica e/o citologica, da parte di uno o più operatori, successiva quella iniziale, é una pratica da decenni in uso nel mondo anglosassone alla quale fanno ampiamente ricorso, per evidenti differenti motivi:

a) patologi

b) medici curanti (chirurghi, internisti, etc.)

c) pazienti

d) operatori di giustizia.

Il fruitore più frequente (negli Usa), e il più classico, è il patologo di prima osservazione che richiede una seconda opinione ad un collega che ritiene particolarmente esperto in un determinato campo della patologia, perché si é imbattuto in una lesione di raro riscontro della quale ha scarsa o nulla esperienza diretta e sul cui significato desidera esser rassicurato ed illuminato.

Altra situazione é quella in cui il patologo si trova di fronte a lesioni i cui parametri morfologici, a suo giudizio non sono particolarmente significativi per definire una lesione, sia nel suo significato istogenetico che nel suo probabile contegno biologico.

E’ evidente che le motivazioni che muovono il patologo alla richiesta di una seconda opinione vanno dal soddisfacimento di esigenze personali di indole conoscitiva, a quelle non meno importanti di fornire al paziente la migliore garanzia di una precisa valutazione diagnostica e di conseguenza il più appropriato comportamento terapeutico, e per ultime, ma non ultime, a quelle di assicurarsi, in caso di possibili controversie in sede giudiziaria, l’attenuante di aver fatto quanto in suo potere per fornire al paziente il massimo di esattezza diagnostica possibile entro i limiti del fattibile. In Italia il ricorso dei patologi ad una seconda opinione non è particolarmente frequente, sia per la riluttanza culturale presente nel nostro medico a sottoporre il proprio operato al giudizio altrui, che all’indifferenza delle amministrazioni, che dovrebbero, invece incentivarne l’uso, a voler riconoscere l’importanza sanitaria e legale di tale pratica e quindi, anche, di attribuirle adeguati corrispettivi economici.

I motivi che inducono il curante (nel nostro caso con maggior frequenza il chirurgo) ed il paziente a richiedere una seconda opinione sono, ovviamente, di altra indole. Di fronte ad un referto, solitamente conseguente ad una biopsia, che comporti procedure altamente rischiose o mutilanti é legittimo volersi accertare sulla accuratezza della diagnosi formulata.

Nel caso, poi, in cui la richiesta viene formulata dalla struttura di diagnosi e cura a cui il paziente si rivolge per il proseguimento del suo iter diagnosticoterapeutico, le motivazioni sono di duplice ordine:

verificare da un lato l’esattezza diagnostica del precedente referto e dall’altro (principalmente) inserire i dati diagnostici nel contesto operativo della struttura per omogeneizzarli ai criteri vigenti della struttura stessa.

Da tutto ciò emergono alcune considerazioni di indole etica, culturale e scientifica.

La seconda opinione é eticamente auspicabile e va praticata nella maniera più ampia possibile, in quanto aumenta la qualità dell’opera del patologo e nello stesso tempo ne rappresenta il metodo più semplice e naturale di verifica offrendo, inoltre, al paziente la garanzia di un trattamento il più preciso e sicuro possibile. Essa, però, non deve suonare, per il patologo refertante di prima istanza una inquisitoria verifica del proprio operato. Su questo terreno scatta, invece, un’altra verifica: quella della valutazione del livello etico-deontologico del patologo consulente che dovrà evitare nel modo più assoluto di mortificare la professionalità del collega ostentando agli incompetenti (che talvolta non sono soltanto i pazienti e i propri familiari) formulazioni diagnostiche termino logicamente differenti, ma nella sostanza identiche o non sottolineando il fatto (ove questo sussista) che la differente formulazione diagnostica non modifica sostanzialmente le prospettive prognostico-terapeutiche indicate nel precedente giudizio.

Il consulente dovrà sempre tener presente che molto spesso l’estensore della prima diagnosi é un patologo di “periferia” al quale non di rado viene conferito materiale privo di pertinenti dati clinici. Molte volte il referto diagnostico istopatologico é il primo ad aprire il discorso su di una patologia inattesa ed imprevista (con il relativo impatto psicologico sul paziente ed i suoi familiari) e questo avviene, disponendo, non di rado, solo di dati incerti e frammentari sia sul piano clinico che su quello morfologico, a causa di prelievi scarsi, incompleti e mal trattati dal punto di vista della conservazione. Il patologo di seconda opinione si trova, spesso, e per sua fortuna, in condizioni ben differenti: il paziente gli giunge già studiato e fornito di elementi di giudizio più ampi e pertinenti.

A questo aggiungasi la subalternità psicologico culturale cui vanno soggetti i pazienti, i loro familiari e non pochi appartenenti alla classe medica, nei confronti delle strutture extra territoriali considerate, per definizione, “superiori”.“Bravo dottore la vostra diagnosi l’hanno confermata anche a Milano.

Bontà loro! E nel caso di divergenza diagnostica, è automatico: il primo refertante ha sbagliato… e si va dall’avvocato!

Non si insiste mai abbastanza nell’affermare che la diagnosi istologica non è un “dato” (prodotto da una macchina, esprimibile in termini matematici), bensì una “opinione”, frutto di attività intellettuale e, pertanto, non esprimibile in termini matematici (‘opinióne [dal sost. lat. opinio -onis, o dal verbo lat. opinari, opinare], in greco (dòxa), in filosofia esprime il concetto che una o più persone, elaborano nei confronti di specifici fatti in assenza di precisi elementi di certezza assoluta per stabilirne la sicura verità, in contrapposizione alla conoscenza scientifica ( , epistème) più sicura. Wikipedia).

Il risvolto culturale e scientifico della seconda opinione é più che evidente, in quanto il confronto, la discussione, la rimeditazione del proprio operato possono non solo migliorare lo standard operativo di chi ne usufruisce, ma principalmente tende a creare quel circuito di idee e di opinioni che é il sistema migliore e più semplice di istruzione permanente e che tra l’altro consente anche al patologo più periferizzato di non isolarsi con il conseguente progressivo degrado della propria attività.

Questa pratica convogliando materiale patologico raro presso esperti o istituzioni particolarmente interessati a determinati tipi di patologia, ha consentito il formarsi di corpose casistiche in grado di definire la storia naturale di numerose condizioni patologiche.

Una breve nota personale: nel 1968 in collaborazione con i compianti colleghi Trabucco e Foscarini, presentammo alla Società Jonico-Salentina di Medicina e Chirurgia il caso di uno strano tumore, insorto in una giovane donna, seguendone il decorso sino all’obitus e al riscontro autoptico, e da noi definito “sarcoma a grandi cellule delle guaine tendinee”. Si trattava di un classico caso di “Sarcoma epitelioide,” entità patologica, a quell’epoca ancora non descritta, la cui nascita “ufficiale” avvenne due anni dopo (1970) ad opera di F. M. Enzinger dell’Armed Forces Institute of Pathology,Washington, D.C. sulla base di ben 62 casi, raccolti per la maggior parte su materiale da seconda opinione.

E’ auspicabile, quindi, che anche da noi questa pratica venga progressivamente ad estendersi entrando nel bagaglio della “buona sanità”. Al precedente si collega un altro aspetto del nostro discorso che meriterebbe una nota a parte: intendo riferirmi alla malpractice in istopatologia. In un recentissimo e dettagliato report sull’argomento (Jena A. B,Serabury S.,Lakdawalls D.,Chandra A. - Malpractice Risk According to Physician Specialty – N.E.J.Med. 2011;365- august 18,2011;629-36), la specialità Pathology si trova nella parte bassa della classifica dei rischi (sestultima di 26, dati U.S.A.,1991-2005). 

Mediamente il 7,4 % dei sanitari, indipendentemente dalla specialità in cui opera, riceve un reclamo annuo per malpractice, con punta massima di circa il 20% in neurochirurgia e minima in psichiatria con circa il 2,5%. Mediamente nell’1,6% dei casi il reclamo dà luogo ad un indennizzo. La frequenza e l’entità degli indennizzi non è correlata con la frequenza dei reclami. In altre parole le specialità con più frequenti reclami non sono obbligatoriamente quelle con maggior numero percentuale di indennizzi o con maggiori costi degli stessi.

Secondo il report circa il 7% annuo degli operatori del settore Patologia riceve un reclamo con una frequenza di pagamento di indennizzi piuttosto elevata (circa il 16%) rispetto all’1,8% della neurochirurgia, capofila nella frequenza di reclami. Per quanto riguarda, poi, la entità economica, l’indennizzo medio per tutte le specialità si aggira su 274,887 ??, con una media di 344,81 ?? per il settore neurochirugia e di 383,509 per quello di Patologia.

Personalmente, ad oggi (la legge italiana, generosamente, e in controtendenza, per questi casi concede un termine di prescrizione decennale), in una oltre cinquantennale attività, avendo esaminato e refertato diverse centinaia di migliaia di casi, con infinite verifiche presso istituzioni nazionali e straniere, a causa della selvaggia migrazione sanitaria vigente nelle nostre zone (sulla quale non sarebbe male, da più parti, interrogarsi) ho ricevuto tre richieste di indennizzo, delle quali una già andata in giudicato in primo grado, con esito a mio favore: trattavasi sempre di casi estremamente difficili e controversi: un tumore leiomuscolare uterino a potenziale maligno incerto,una lesione linfoproliferativa della cute di assai discutibile interpretazione, un papilloma florido dell’areola mammaria (esaminato in estemporanea intraoperatoria).

Analizzando i dati del precitato report tenderei a spiegare il basso numero di reclami con la buona affidabilità della diagnostica istopatologica, la relativamente elevata frequenza di indennizzi, con la (falsa) convinzione della infallibilità del verdetto istopatologico che quando non è conforme alla realtà fattuale è sempre dovuto a carenze dell’operatore, il relativamente elevato valore degli indennizzi con la gravità degli eventi morbosi con cui tale diagnostica deve confrontarsi.

Dalla sia pur sommaria esposizione delle varie problematiche e limitazioni inerenti la diagnosi istopatologica, si evince come il referto diagnostico che ne scaturisce è un documento di una certa complessità e che per la sua corretta e completa comprensione è necessario che i suoi destinatari siano culturalmente preparati a recepirlo.

In conclusione la diagnosi istopatologica:

1) è un atto medico a tutti gli effetti in quanto incide direttamente sullo status del paziente indicandone la prognosi, la predittività e l’orientamento terapeutico da adottarsi ed è il frutto di una scelta tra varie opzioni diagnostiche;

2) di conseguenza non va considerato alla stregua di un dato di laboratorio essendo il tempo laboratoristico meramente strumentale alla lettura ed alla interpretazione del dato morfologico;

3) pertanto, stando così le cose all’operatore istopatologo, al pari del collega clinico, vanno forniti, all’atto delle sue valutazioni diagnostiche, tutti i dati clinici (anamnestico-obbiettivi), strumentali e di laboratorio inerenti al caso in esame;

4) la diagnosi istopatologica non è tutta luce, ma presenta dei recessi oscuri, dovuti alla incapacità dei mezzi disponibili di correttamente e con certezza interpretare alcuni reperti. Nascono, così le vie di fuga (escape routes) che tendono a mascherare queste insufficienze sotto il nome di LMP (low malignant potential), UMP (uncertain malignant potential), borderline etc.

5) Esiste, pertanto, una gradualità di certezza nella diagnosi istopatologica che va trasmessa al destinatario e che da quest’ultimo va percepita, che si esprime con termini aggiuntivi a seconda del livello di convinzione dell’operatore di fronte alla diagnosi proposta: le diagnosi senza alcuna aggettivazione sono indicative di piena convinzione;in quelle “compatibili con”: qualche lieve perplessità comincia a farsi strada; nelle “suggestive di” le perplessità sono più consistenti; “opinione diagnostica” lascia il campo aperto a varie interpretazioni.

6) la variabilità dei meccanismi patogenetici, di cui in ultima analisi conosciamo ben poco, fa sì che i quadri morfologici non sono sempre identici nella qualità e nella quantità delle varie componenti, il che produce la nascita (e la morte) delle cosiddette varianti e la quadriglia periodica delle

classificazioni in cui i vari istotipi passano da una casella tassonomica a un’altra con la leggerezza di un changez la femme (la papulosi linfomatoide, la malattia di Castelman, la linfoadenopatia angioimmunoblastica sono linfomi un giorno si e uno no!).

7) Quello dell’istopatologo è un mestiere bellissimo, perché è difficile e non conosce routine, specialmente quando si è patologi “generalisti” (quali ci compiacciamo di definirci) in cui la mancanza della costrizione specialistica e un ragionare di ampio respiro non ancora (per quanto?) sopraffatto dalla tecnologia, consentono lo spaziare da un campo all’altro, perché, come diceva Virchow, la Patologia è una (e io aggiungerei indivisibile), dove le combinazioni sono pressoché illimitate ed in cui gli esami non finiscono mai, ma vanno affrontati con grande umiltà d’animo abbandonando lo spirito dell’ipse dixit, che anima, talvolta, qualche mio paludato collega. 

Questo scritto lo dedico ai colleghi presenti ed ahimè ai tanti assenti che in questi 50 anni mi hanno supportato con la loro fiducia ed amicizia e sopportato con la loro pazienza.

 Estate 2011

 (*negli USA il titolo di prof. non indica uno status.

Nei rapporti interprofessionali si usa il dott)